| Paolo Campanelli, i 90 anni di un mito del motociclismo dei “giorni del coraggio”
Di Massimo Falcioni
Compie oggi (ieri NdR) 90 anni, in gran forma, Paolo Campanelli, nato a Mondolfo presso Pesaro il 27 aprile 1931, il centauro del motociclismo dei Giorni del coraggio, in pista ininterrottamente per 32 anni, dal 1946 al 1978. “Se non ci fosse stata una norma della FMI che poneva il limite d’età – dice ancora con un pizzico di stizza l’ex centauro-meccanico-costruttore nella sua bella casa pesarese in riva al fiume Foglia a un tiro di schioppo dal mare Adriatico – io avrei continuato a correre ben oltre i 48 anni”. Già, perché Paolo, all’epoca in formissima, era ancora in lotta con i migliori piloti della 500 e non era raro, dopo start straordinari, vederlo scappare via in testa davanti a gente del calibro di Agostini, Hailwood, Pasolini. Insomma, oggi si fa un gran parlare di Valentino Rossi – il Dottore pesarese 9 volte iridato – ancora in pista a 42anni dopo oltre un quarto di secolo, e qui, con Paolo campanelli siamo di fronte a un centauro combattente di “cappa e spada”, in prima linea per ben 32 stagioni agonistiche in tempi quando cadere era la norma ogni domenica e i rischi erano davvero alti fino a condurre all’ospedale, o peggio. E quando alle corse ci si preparava e si andava in modo tutto diverso da oggi: lavorando di notte attorno a una moto acquistata a rate con l’aiuto di famigliari e amici, caricando su una utilitaria sgangherata la cavalcatura, i ricambi (pochi) e i viveri (in quantità), per poi dare gas nei circuiti cittadini o sulle piste “da paura” del mondiale, senza timori reverenziali nei confronti di nessuno, ma rispettando sempre tutti, dal campione più consacrato all’ultimo novizio. Campanelli è stato uno degli esponenti, indubbiamente fra i più caratteristici per indole, modo di vivere in pista e di correre, di quel motociclismo “tutto gas e passione” dove al corridore privato (anzi privatissimo) veniva messo tutto nel suo conto, meno la misera diaria che non copriva neppure le spese della trasferta. Senza corridori come Paolo Campanelli – peraltro gran manico e tecnico sopraffino su ogni tipo di moto, marca, cilindrata e categoria - cosa sarebbe stato il motociclismo dal dopoguerra agli anni ’80, chi sarebbero stati i nomi mitici scritti negli albi d’oro, come poteva esserci oggi quel motociclismo show-business iper mediatico e luccicante ma privo di quella genuinità e di quella spinta propulsiva di quei tempi andati? Dopo una splendida e combattutissima gara della Mototemporada tricolore, Paolo Campanelli, sul secondo gradino del podio dopo una corsa a vita persa sulla sua Kawasaki 500 3 cilindri 2 tempi, si rivolse al vincitore Giacomo Agostini dicendogli ironicamente in dialetto pesarese: “Chitz sarest te, sen ce fossa me e quei come me?” (Chi saresti te, se non ci fossi io e non ci fossero i corridori come me?”. Siccome gli organizzatori pagavano di più i corridori stranieri, anche quelli “scarti”, paolo cambiò nome iscrivendosi come “Klinghel” e la sua diaria raddoppiò. “Avete visto – diceva sorridendo – ho cambiato nome e mi pagano il doppio di prima, ma io sono sempre io”. Già. Quando la filosofia segna, se non la storia, il podio di una corsa di un motociclismo, appunto, che rende gli onori dovuti a tutti, alla pari, come la bevuta di Sangiovese che, inevitabilmente, seguiva dopo la corsa. Paolo Campanelli, che pure di corse (e che corse!) e di campionati ne ha vinti, è da annoverarsi fra i campioni “senza corona” ma che, specie nei momenti più alti della loro carriera, poco o nulla avevano meno di chi ha scritto il proprio nome sugli albi d’oro. Più che il valore, mancò la fortuna, come si dice. Più del manico mancò il mezzo. Manca forse, nel palmares, la corsa e il campionato che pesano ma nessuno può dimenticare qual che in pista ha fatto un pilota come Paolo Campanelli, corridore di passione, di talento e di coraggio, che ha dato sempre tutto se stesso (e di più) alle corse, un campione anche di umanità davanti al quale il motociclismo (e lo sport tutto) deve togliersi il cappello, onorato di averlo avuto in corsa, da protagonista, per oltre tre decenni. Terzo di sette figli, Paolo, che ha ereditato la passione per la moto e per le corse da suo padre Bruno – figura nota a tutti a Pesaro e non solo, prima della guerra corridore del corpo della milizia e gestore di una delle principali rivendita-officina della città di Rossini – ha vinto 27 gare, è salito 30 volte sul podio guidando magistralmente moto di ogni cilindrata, dalle 50 alle 500 (anche nel sidecar!): Benelli, MotoBI, Gilera, Norton, Ducati, Kawasaki. Nel 1952 Campione d’Italia della 500 seconda categoria su Gilera Saturno, poi il gran secondo posto assoluto (dopo il bolognese Leopoldo Tartarini) sul Benelli Leoncino 125 nella prima durissima edizione del Motogiro, risultato ancora più eclatante dopo aver battuto centinaia di avversari in sella a moto di cilindrata superiore, doppia e anche quadrupla. Negli anni 50 ha vinto quattro titoli per monocilindriche alla Milano-Taranto. Negli anni 60 portò al debutto vittorioso la MotoBI 250 monocilindrica aste e bilancieri, davanti alle mono bialbero e battendosi con le pluricilindriche italiane e straniere. Aveva anche partecipato con onore a decine di gare internazionali e, dal 1953 al 1970, ottiene punti nel Motomondiale, sempre presente nel Gran Premio delle Nazioni di Monza dove più volte sfiora il podio nelle 250 e nelle 500. Ha corso per l’ultima volta sul circuito di casa di Villa Fastiggi nella storica 500 dei duelli Agostini-Hailwood e Agostini-Saarinen. I 100 mila lo chiamarono a gran voce e Paolo ricambiò abbracciando tutti col rombo del motore. Poi la devozione nel restauro dei vecchi bolidi, specie le Gilera Saturno e i Norton Manx e la pazienza infinita nel raccontare agli appassionati le gesta di quel motociclismo antico di cui è stato protagonista. Paolo, grazie e tanti Auguri!
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